Verne la sapeva lunga.
Quale miglior finale, infatti, dopo un viaggio al centro della terra, che non essere catapultati nella realtà consueta dalle fauci di un vulcano?
Questi monti, apparentemente innocui e bonari, sembrano fatti per stuzzicare l’immaginario, per appagare il desiderio d’avventura.
L’Etna non è certo un’eccezione. Già da lontano la sua sagoma promette d’essere non solo ciò che sembra. Le dolci pendici e la cima smussata farebbero pensare ad una pacifica montagna ma le volute di fumo che escono dalla sua bocca non lasciano dubbi.
Mano a mano che ci si avvicina si lascia il paesaggio marino per inerpicarsi tra paesini che, non fosse per qualche palma, sembrerebbero austriaci.
Poi la vegetazione lascia il passo alle rocce laviche, ed ecco che, tutto attorno, non è altro che un nero e appuntito scenario da draghi.
Nè il rifugio che si raggiunge in auto, nè la funivia che porta ai crateri principali riescono a spegnere il fascino selvaggio del luogo.
Camminiamo con rispetto sull’orlo dei crateri
e saliamo ripidi pendi di lava leggera, nella quale si scivola e si affonda come fosse neve.
Quando i nostri schiamazzi tacciono, il silenzio è quello di una grotta a cielo aperto. All’imbrunire, mentre il sole scompare all’orizzonte, le luci di Catania si accendono e il fumo delle fumarole nella piana si staglia nel cielo grigio.
Poi… è oscurità e, come liberato dalla presenza fastidiosa dell’uomo, l’Etna si lascia sfuggire dalle profondità lontane della terra, un cupo, breve e profondo sospiro.