“Non sono un essere silvestre!”.
Sto percorrendo un sentiero deserto ed è questo che penso mentre un gregge solitario viene annunciato da un flebile scampanellio facendomi trasalire. Anche un trio di cornacchie è colto di sorpresa e si alza in volo, gracchiando tra gli alberi; un’alta raffica di vento ne muove le cime, come a comando, per un breve ed intenso istante.

La mia appartenenza al genere umano è evidente quando passeggio nei boschi. Sono luoghi che adoro ma nei quali non posso esimermi dal sentirmi straniera e quindi guardinga. E dire che questo parco è intriso di testimonianze umane. Siamo nel parco minerario Floristella, uno dei più importanti esempi di archeologia industriale del mezzogiorno.

Qua, nascoste e in disuso, si insinuano nel terreno vecchie miniere di zolfo, attive dalla fine del settecento fino al 1986. Nei giorni feriali una guida accompagna i visitatori ma è domenica, non c’è nessuno e per ricostruire quei tempi possiamo far affidamento solo su vecchie foto e sui resti delle strutture mangiate dalla ruggine e dal tempo.

Sulla collina, fuori dal bosco, si staglia palazzo Pennisi, la residenza dei padroni, monumento alle enormi disparità sociali del tempo.

Costruito in posizione dominante per tenere sotto controllo i minatori in caso di rivolta, aveva feritoie per le armi e passaggi segreti per fuggire a valle. Proprio lì accanto ciò che resta di un pozzo d’estrazione: la torre che si erge come un faro sulla valle, binari che muoiono nell’erba, carrelli arruginiti.

Non è difficile immaginarsi la vita, la fatica, i rumori che riempivano questi luoghi; la presenza dell’uomo è dietro ogni angolo e li circonda di un fascino inusuale.

Quando lasciamo il palazzo ai suoi ricordi solitari e torniamo sui nostri passi, verso i tavoli da picnic e il moderno edificio del museo non lasciamo solo alberi, sentieri, rovine, ma anche un mondo sotterraneo, invisibile agli occhi ma vistosamente presente nell’anima di chiunque si trovi a varcarne i confini.
