Confini

Chi va per mare ha il privilegio di attraversare i confini con ritmi così lenti da accorgersi in modo inequivocabile della loro esistenza fittizia: mentre il gps disegna la prua della barca a cavallo di una linea immaginaria il cielo resta lo stesso, uguali le condizioni meteo, il vento, il colore dell’acqua , il moto delle onde. Tutto è immutato e continua a dipanare il suo tempo secondo il suo personale ritmo. La verità è che la natura è completamente ignara dell’esistenza del nostro planisfero, colorato come il vestito d’Arlecchino e, nel bene e nel male, non ha confini.

Nel nostro terreno non è cambiato nulla da una settimana a questa parte. Immagino che il vento soffi sempre nello stesso modo e che i lombrichi, gli uccelli e i semi di piante selvatiche continuino la loro vita come sempre. Ma attorno ai suoi quattro lati è cresciuto un muretto di cinta, un confine artificiale. Gli operai hanno sistemato assi, travi e chiodi per dare un contenitore al cemento liquido che sarebbe sgorgato da un ennesimo dinosauro meccanico, come quando si rovescia l’impasto della ciambella nello stampo.

Poi il tempo ha fatto il resto. La grigia fanghiglia è diventata un solido muro sopra il quale, a breve, si appoggerà una rete in attesa di essere coperta da rampicanti.

La recinzione è fatta. E se, come è vero, recingere vuol dire circondare, allora preferisco pensare a questi muri non come ad un confine formale ma come ad un abbraccio attorno a quel che verrà e di cui avrò il piacere e il dovere di occuparmi.

Cielo di febbraio

Febbraio, il mese più corto dell’anno, anche quando ha 29 giorni. Il mese del Carnevale, storicamente l’elogio dei contrari, l’abolizione dei divieti, la festa delle finzioni e dei desideri se ci si traveste per essere altro e mostrare o nascondere, finalmente, qualcosa di se stessi.

Di tutto questo sono rimasti solo colori e bimbi mascherati. La festa del paese mette in piazza giocolieri così alle prime armi che fanno quasi tenerezza. Qualcuno veste la balena da Arlecchino e i ragazzini ricoprono le strade di coriandoli e stelle filanti.

Lontano, ma non così tanto, dalle celebrazioni degli uomini, anche i campi e i prati si vestono di coriandoli.

Rossi,

gialli,

multicolori.

Sopra ai tappeti colorati, solitari o a filari, i mandorli, fino a poco fa lignei ed anonimi, esplodono di coriandoli rosa e bianchi.

Ed eccolo lì, tra i loro petali, a riempire i vuoti tra fiore e fiore, tra ramo e ramo, come fosse stato lui a lasciar impigliare quelle nuvole colorate tra i rami, fa capolino, ambasciatore di speranza e primavera, il cielo di febbraio.

Foto di Rossella (Mandorla Kuva)

Terra e macchine

..L’ escavatore sembrava starsene accovacciato in mezzo a tutte le altre macchine, con la sua grande massa che incombeva su di esse, il braccio abbassato e il suo mento di ferro al suolo, come un grande dinosauro stanco… (T.Sturgeon)

Le macchine sono arrivate al terreno prima di noi e quando siamo arrivati stavano già lavorando. Mastodonti di ferro obbedienti e sottomessi agli ordini dell’uomo. Nulla a che vedere col racconto citato, in cui le cose non vanno proprio così ma, fortunatamente, quella era solo splendida e fervida fantasia di un grande scrittore. Qui le cose erano diverse e tutti stavano facendo il loro dovere. L’ escavatore scavava il terreno togliendo erba, sassi e tutto ciò che incontrava nel suo cammino. Poi, con la sua mano potente, lo posava sui camion che avrebbero trasportato via l’eccesso. A mano a mano il mare d’erba lasciava spazio alla roccia calcarea e al terreno pulito e nuovo, come appena nato.

C’è una certa dose di tristezza e una certa dose di grandiosità e di potenza nel trasformare un terreno affollato e incolto in una distesa pianeggiante e solitaria. Era quasi il tramonto quando le macchine se ne sono andate, docili, con gli uomini che le comandano.

Ora il nostro scampolo di terra sembra molto più grande ed è pronto per accogliere ciò che verrà, ma gli uccelli, volando indispettiti ovunque, si lamentano del cibo che gli abbiamo tolto. Non hanno di che preoccuparsi: mi farò perdonare. Un piccolo mandorlo, cresciuto a ridosso del muro di confine, è il testimone fiorito e indenne di ciò che è stato e, mentre il sole si tuffa nel mare, io aspetto con ansia di cominciare ciò che sarà.

cielo di gennaio

…La domenica arriva sempre in ritardo pallida e senza fiato…

Così cantava Jannacci raccontando una delle sue piccole storie amare e il mio cielo di gennaio, anche senza strofe poetiche e tutt’altro che pallido, è comunque trafelato e in ritardo. È rimasto dimenticato tra i pixel della macchina fotografica mentre i giorni passavano e solo oggi mi sono accorta che mancava all’appello.

Non è il frutto di momenti speciali nè portatore di storie da raccontare. È solo l’immagine di un inverno limpido senza nubi e senza pioggia, illuminato da un sole che riempie di riflessi uno scampolo di blu intenso.

È un bel cielo da guardare questo primo cielo dell’anno, lascia ben sperare e siccome di pensieri positivi c’è sia bisogno che carenza, mi piace pensare che questo cielo si sposi alla perfezione con un augurio che viene da lontano e che vi lascio in attesa del prossimo cielo…

“May the long time sun shine upon you, all love surround you, and the pure light within you guide your way on”

“Che il sole ti illumini sempre, l’amore ti circondi e la pura luce dentro di te guidi il tuo cammino”

(Nirvair Singh Khalsa)

Mare d’erba

“…Sembra quasi un mare l’erba…” cantava la Premiata Forneria Marconi ma il prato che ho davanti poco gli somiglia. Ci sono cespugli di malva, ciuffi di bietole selvatiche, cardi spinosi, olivi e mandorli selvatici, arbusti di ferla, sotto i quali crescono guardinghi i funghi ononimi e persino un asparago selvatico spunta col suo esile capo. In angolo un muretto a secco, ormai irrecuperabile, con i sassi che si sgretolano al solo guardarli e dall’altro lato un’insegna stradale che porta proprio il nome di un mare .

Ma il mare, quello vero, è all’orizzonte dove finisce il digradare dei campi coltivati. La foschia confonde i confini tra acqua e cielo e il faro di Punta Secca si staglia bianco in equilibrio tra i due. Laggiù è stata la mia casa negli ultimi cinque anni. Quassù…lo diventerà. E se, prima, il libro di Silvia era ” La mia casa è partita in barca” ora il titolo per un improbabile sequel sarebbe “La mia barca è ormeggiata in giardino” in questo giardino che è ancora un prato incolto, ma che, da qualche giorno, è di nostra proprietà.

Così, anche se non sarà un’arca di Noè quella che costruiremo, gli insegnamenti del mare non andranno perduti. Abbiamo imparato ad apprezzare l’essenziale e ad evitare il superfluo, abbiamo chinato il capo davanti alla forza della natura e ci siamo ripromessi di rispettarla e di difenderla, abbiamo avuto innumerevoli occasioni ed incontri con persone diverse e ne siamo usciti arricchiti, una ricchezza alla quale non vogliamo rinunciare. Questo e molto altro è quello che ci ha lasciato il mare ed è con questo che cominceremo la nostra nuova avventura in… un mare d’erba.

Vita da presepe

Immaginate, mentre osservate un presepe allestito come tradizione vuole, di sentirvi improvvisamente strani e, come da copione di un vecchio film di fantascienza, di cominciare a rimpicciolire sempre più fino a ritrovarvi a guardare negli occhi le statuine di terracotta.

Ora, sopra di voi c’è un cielo blu intenso, cosparso di stelle e una piccola falce di luna. Sotto ai vostri piedi un sentiero di ghiaia e terra. Intorno grotte, scavate nella roccia di bianco calcare, coperte di muschio e gocciolanti acqua. Faló lungo le strade e, in lontananza, la cometa. Ad attendervi, per darvi il benvenuto, una voce d’angelo che racconta, cantando, la storia di un bambinello nato in una stalla.

Attorno a voi, via vai di gente, ognuno intento al suo lavoro. Una piccola folla di artigiani che popola le grotte, mestieri antichi e dimenticati: il cordaio

il canestraio

il frantoiano

il pittore

il muratore

il vignaiolo

il fabbro

l’arrotino

il seggiolaio

il mugnaio e tanti altri ancora…

A tratti, come fossero azionati da un remoto pulsante, interrompono il loro lavoro per presentarsi a voi che li osservate e, in versi, declamano la loro storia…

Bene, per vostra e mia fortuna, non importa rimpicciolire, perché questo è esattamente quello che aspetta i visitatori al presepe vivente di Ispica. Le grotte, fino a sessant’anni fa ancora utilizzate, sono una cornice ineguagliabile e i figuranti di una bravura unica. La suggestione è tale da chiedersi veramente se non sia accaduto una specie di miracolo e il tempo impiegato a scrutare ogni angolo è intriso di emozioni. Quando, alla fine del percorso, al canto della lavandaia si sovrappongono le timide voci dei visitatori che ricordano l’antica melodia, l’emozione sfiora la commozione.

Ma è l’ultima, toccante scena, prima di tornare al mondo reale. Sul muro che separa la realtà dal sogno un ultimo scritto e una certezza: l’auspicio delle parole di commiato non sarà disatteso.

il cielo di dicembre

Gli occhi del bambino guardano in alto e lontano: l’uomo che gli sta accanto è grande come una montagna e il piazzale ingombro di auto e camion è una distesa infinita, quasi un oceano. Quando si è cuccioli d’uomo è così che si vede il mondo, un’enormità troppo grande per le proprie manine. Il carro attrezzi, poco distante, sembra un dinosauro di ferro che debba caricarsi in groppa un animale ferito ma è l’uomo grande, il suo papà, che può ordinargli di farlo e questo il piccolo lo sa. Quello che non sa ancora è che la scatola magica che comanda l’argano del carro attrezzi oggi sarà sua. Quando l’uomo che comanda i dinosauri gliela consegna insieme ai gesti magici che dovrà usare,  lui serra le labbra, sgrana gli occhi, trattiene il respiro e, mentre il cuore gli batte forte, guarda l’auto salire lenta sulle rotaie, perché questa volta è lui, piccolo cucciolo d’uomo, che glielo sta ordinando e con tutta l’emozione e la serietà che richiede un grande potere, assaggia una briciola di onnipotenza.

Ecco, oggi, sotto il cielo rosa di dicembre, ho pensato che sarebbe bello poter incartare gli attimi e metterli sotto l’albero di Natale e , dovendo scegliere, stavolta sceglierei questo: quella sensazione meravigliosa che è  sentirsi forti e potenti, capaci di tutto, ma senza arroganza, senza prepotenza. Solo con la gioia e il rispetto di un bambino che spinge bottoni in un grande piazzale, di fianco al suo papà .

Buon Natale a tutti!

Ritorno al futuro

Il cielo è di un azzurro sbiadito, carta da zucchero. L’acqua grigia ne riflette il colore. Gabbiani urlanti passano sul traghetto che incessantemente unisce le due sponde del porto canale. L’odore salmastro del mare si fonde con quello dell’autunno. Il naso è rosso, le mani fredde. I miei amici hanno le cuffie calcate sulle orecchie e le mani in tasca. Passano velocemente da una chiazza di sole all’altra perché l’ombra è fitta d’umidità. Seduti a tavola, però, il calore umano è sufficiente a far star bene. Nei piatti la Romagna doc: spiedini di gamberi impanati e fritto misto. Lungo la strada la fragranza irresistibile della piada.

Sensazioni, luoghi e persone fissati così saldamente nella memoria e così familiari che, a ricordarci che l’anno in corso finisce per 9 e non per 4, è solo una firma e gli ultimi passi nel pozzetto di Cautha, dove passiamo il testimone a Luca, a cui apparterrà  d’ora in avanti. Il nostro storico consulente, Michele, è stato di parola e, in poco più di un mese di ormeggio a Marina di Ravenna, ha trovato l’acquirente giusto.

Giusto davvero, perché Luca e la sua compagna sono persone perbene e simpatiche e questo rende più dolce il commiato. La nostra barca, in fondo, è tornata “a casa”, nella cornice che è stata testimone del suo varo e noi, per un attimo, siamo tornati indietro nel tempo.

Quando i ricordi non sono né rimpianti né rimorsi, abbandonarsi alla memoria è una sensazione piacevolmente malinconica e, così, lasciato con un sorriso il passato, sul ponte del traghetto che ci riporta in Sicilia, ci prepariamo  all’emozione (con i dovuti omaggi a Zemeckis) di… un ritorno al futuro.

…Nella nuova fattoria…

La prima entra dalla porta con qualche esitazione, poi arrivano tutte le altre, in fila ordinata, finché non si tratta di andare al proprio posto (come direi se fossi ancora in un’ aula scolastica). A quel punto un piccolo ingorgo è inevitabile ma è di breve durata e decisamente poco caotico.

È proprio vero! Queste capre, di razza svizzera, oltre che bellissime, sono anche molto mansuete.

Ci troviamo tra le province di Ragusa e Siracusa, immersi in un paesaggio verde e collinare, disseminato di ulivi. È il momento della mungitura e tutto procede in modo perfettamente ordinato.

A fine operazione il latte appena munto finirà immediatamente nei locali destinati alla sua trasformazione in squisiti formaggi caprini. Flavia, che gestisce col fratello questo scampolo di paradiso, ci fa da cicerone e ci accompagna in questa grande fattoria biologica che prende il nome dalla contrada in cui si trova: Albacara. Ci racconta e ci spiega con esuberanza i luoghi, il loro passato e il loro presente; ci illustra ogni fase della lavorazione del formaggio, della molitura delle olive, della semina del grano; condivide le iniziative che sostiene e i progetti che stanno bollendo in pentola. È competente e sincera come i prodotti che abbiamo il piacere di assaggiare a visita conclusa.

Intanto, mentre il sole cala facendo luccicare  centinaia di pannelli fotovoltaici, nella stalla le 300 caprette mangiano quiete, fuori, in un recinto a parte, ci sono i becchi, le  galline siciliane dalla cresta a forma di corona, i tacchini, i maialini neri dei Nebrodi e il coniglietto Mercoledì che ha “edificato” nel suo recinto un dedalo di grotte e buchi e cunicoli.

Ed è proprio questa atmosfera piacevolmente dissonante la forza di questo luogo e l’origine del piacere che si prova visitandolo: un’azienda straordinariamente moderna, efficiente e tecnologica ma disegnata nella pagina di un libro di fiabe.

Cieli

Se avessi incontrato Anna in un altro luogo, uno qualsiasi, l’avrei immaginata intenta a sfornare soffici torte o a dipingere acquerelli o a canticchiare allegre melodie. Il suo aspetto e ancor più i suoi modi rimandavano ad immagini di pace e dolcezza. Invece si occupava (e si occupa ancora) di ben altro, di numeri e di formule, di percentuali e di leggi e lo fa in maniera eccelsa. Qualche anno fa, insieme a sterili documenti, le inviai, con l’intento di addolcire l’ inverno padano, qualche foto del mite inverno siculo e lei, nel ringraziarmi, scrisse qualcosa come ” …grazie per le foto che ci ricordano di volgere gli occhi al cielo…”

Resta un mistero per me come alcune cose si fissino nella memoria, senza motivo apparente. Fatto sta che ora dalla terrazza del nostro provvisorio alloggio terrestre il cielo è particolarmente vicino. Comincia dove il mare finisce e, come il mare, cambia colori e forme, di giorno in giorno, di ora in ora. Guardarlo è uno spettacolo sempre nuovo e quella lontana frase, annidata chissà perché nella memoria, mi è tornata in mente.

Ho pensato che, come svolazzando, ricordavano gli striscioni al festival degli aquiloni, c’è “un solo cielo per un solo mondo” e che ognuno, in ogni angolo della Terra può guardarlo, anche se non è detto che voglia o che possa.

Così, forte del mio punto di osservazione privilegiato, ho deciso di condividere i miei cieli, dodici cieli per dodici mesi. Spero l’iniziativa vi piaccia e penso che un sole bellicoso che ha la meglio sulle incalzanti nuvole temporalesche possa essere un ottimo inizio. Quindi, ecco a voi calcare le scene il primo dei protagonisti :

IL CIELO DI NOVEMBRE

Nettare antico

…Mastica e sputa, da una parte il miele, mastica e sputa, dall’altra la cera…

Così cantava De Andrè in una delle mie canzoni preferite. Lui narrava con le note e la sua meravigliosa poesia di alcune anziane contadine nel materano, io, invece, sono davanti alla versione moderna ma altrettanto affascinante di questa magica separazione.

In questo periodo di vita terricola approfittiamo del tempo più che clemente per fare visite rimandate da tempo: Emanuele Agosta è un uomo cordiale, un piccolo vulcano d’idee e un appassionato apicultore. Lo andiamo a trovare nella sua azienda, praticamente introvabile senza indicazioni accurate, immersa in un nulla affollato di verde, fronte mare, che benché  lontano è sempre  presente. In questa piccola oasi, dove l’intervento dell’uomo è ridotto al minimo, si compie il miracolo.

Come per l’olio, per il vino e per chissà quant’altro, da buona cittadina, nata e cresciuta tra le case, mi incanto nell’ammirare la passione e l’ingegno dell’uomo quando collabora con la natura.

In ordine sparso le arnie circondano il capannone dove avviene la lavorazione. Sono mansuete e affaccendate. Vicino alle loro casette è tutto un brusio. L’uomo che le conosce meglio di chiunque altro me ne posa una in mano, solo per un attimo prima che l’infaticabile insettino riprenda il suo andirivieni.

All’interno, una macchina prende il posto delle anziane donne e raschia via la cera dai favi.

Provo ad assaggiarla, ricavandone un minimo residuo di miele e una gomma da masticare, bizzarra ma buonissima. Lì accanto  la centrifuga è pronta ad estrarre l’ambrato zucchero dai telai disopercolati

e il miele, ancora intriso di natura, nel secchio, aspetta di essere filtrato per finire nei vasetti pronti per la vendita.

Sull’etichetta un cielo blu, fiori gialli, un bagolaro dalla chioma frondosa, tipico  e antico, che Emanuele descrive come un gigante buono e, dietro gli immancabili muretti a secco, una masseria. Sul tetto, quasi invisibili, due uomini che mettono tegole, perché, ai primi del 900, Fornace Penna di Punta Pisciotto sfornava mattoni e tegole al ritmo di diecimila pezzi al giorno. Una scelta grafica fatta di cuore e di memorie.

Emanuele spiega, racconta, mostra, invita all’assaggio con una passione difficilmente contenibile. Quando ce ne andiamo siamo più ricchi e sazi di conoscenze. Ci portiamo a casa dei dolci piaceri ma non solo: nella borsa della spesa c’è anche un romanzo sulla Sicilia e sulle sue tradizioni, scritto in un piccolo rettangolo di carta blu incollato su un vasetto di vetro.

Il valore delle cose

L’olivo è da sempre uno dei miei alberi preferiti. Mi piacciono il suo tronco nodoso e contorto e le sue foglie sottili e appuntite. Mi piace la macchia verde della sua chioma che si tinge d’argento ad ogni colpo di vento e mi affascina la sua storia antica. Albero millenario, simbolo di pace, è coltivato da sempre sulle coste di tutti i paesi che si affacciano sul Mare Nostrum, una sorta di segno di riconoscimento di tutti i popoli del Mediterraneo che ne traggono olive e olio per la gioia del palato. 

Ed ecco il punto in questione. È tutto in quel “traggono” che fino a qualche giorno fa era pura accademia. Una semplice parola che istantaneamente collegava mentalmente l’immagine dell’albero con quella dell’oliera sulla tavola. Ma a cambiare le carte in tavola è giunto l’invito di un amico a partecipare alla raccolta e così quel semplice verbo si è trasformato in una serie inaspettata di azioni, dando al tutto ben altro spessore.

Ed ecco, quindi, il nostro “traggono” dipanato in una lunga sequenza.   

Punto primo:  Potare (se non è già stato fatto, come succede nelle aziende “vere”) l’albero dai rami secchi o da quelli troppo alti per potervi lavorare, poi pulire (se non è già stato fatto, come succede nelle aziende “vere”) il terreno sotto l’albero e stendere la rete e… 

Pettinare” i rami per fare cadere le olive e…

Raccogliere la rete e…

Versare le olive nella cassa e spigolare le olive rimaste sul terreno, in comoda posizione genuflessa e…

Versare di nuovo le olive nella cassa e… 

ricominciare con un altro albero e un altro ancora finché, alla fine, si devono portare tutte le casse al frantoio dove inizia un’altra lunga sequenza di fatti. 

Le olive vengono separate dalle foglie,

lavate e frantumate (da cui il nome frantoio) creando una specie di impasto.

Questa pasta d’olive viene poi raffreddata e rimescolata lentamente (il nome tecnico è gramolatura)

Infine il tutto viene centrifugato per ottenere finalmente l’olio che, a quel punto, può essere ancora filtrato per ottenere un prodotto più stabile. 

Ed ecco fatto! La magia è compiuta! 

E di magia davvero si tratta anche se la bacchetta magica non c’entra. Volendo essere sincera devo ammettere che il fascino dell’esperienza è stato direttamente proporzionale alla fatica…e, credetemi, è stato molto, molto affascinante. Il mio più grande rispetto va alla gente che di questo vive. Io non credo ripeterò l’esperienza ma so che ogni volta che guarderò una bottiglia d’olio su uno scaffale o su una tavola imbandita vedrò attraverso la sua verde trasparenza il tempo, la fatica, gli uomini, le macchine, la cura e il rispetto che contiene e saprò quello che vale.    

Il paese col cappello da mago

Leonforte è un piccolo paesino al centro dei Monti Erei, molto vicino ad Enna, uno dei tanti gioielli seminati all’interno della Sicilia. Queste le coordinate reali, ma quelle non meno vere che solleticano l’immaginario ci portano direttamente nel regno di Oz. Dall’alto del belvedere di Villa Branciforti si può vedere la valle accucciata lì sotto e le colline intorno ad abbracciarla, le case vicine le une alle altre che si tengono per mano per non scivolare di sotto e il cielo a portata di mano.

Se, affacciati al muretto del belvedere, vi guardate ben bene intorno, vedrete, tra i tetti, spuntare sulla cima di un campanile un colorato cappello da mago. È ben mimetizzato, ma ad uno sguardo attento non sfugge la sua inconfondibile forma.

Poco lontano, in fondo alla valle, sorge un edificio bizzarro, che altro non è che una fontana monumentale.

La Gran Fonte (o Granfonte), voluta da Placido Branciforti, ovviamente principe (che in una fiaba, insieme al mago non può mancare…) ha 24 cannelle come le ore del giorno. Si narra, inoltre, che il regale, capriccioso come narrazione comanda, si fosse fatto costruire il palazzo che porta il suo nome con 365 stanze, una per ogni giorno dell’anno.

Utilizzata da sempre dalla popolazione,

la fonte, adesso, è un’attrazione turistica e lo scenario ideale per foto di gruppo, sempre che si trovi qualche volontario disposto a scattarla.

All’ appello manca ancora, però, la protagonista di ogni fiaba che si rispetti: la bella principessa. In questo caso non ha trecce bionde e occhi azzurri ma una polpa zuccherina e succosa.

Si tratta della pesca di Leonforte, che, ignara del suo destino, da metà giugno in poi viene nascosta e protetta da un sacchetto di carta, pesca per pesca, ramo per ramo, fino al giorno del suo risveglio.

Ed è ad ottobre, appunto, il suo momento di gloria.

Durante la sagra della pesca è la regina incontrastata: cassette di frutti appena colti, pesche sciroppate, marmellate e, intorno a lei, a festeggiarla, il paese intero e tanti pellegrini venuti da lontano.

Tra questi anche noi, invitati da un gruppo di fantastici e giovanissimi ragazzi, conosciuti quest’estate a Marina. Fieri scudieri del loro regno, preparati e disponibili, ci hanno incuriosito prima e accompagnato poi per le strade del loro paese e nelle sale del suggestivo museo multimediale, dedicato al pittore leonfortese Liardo. All’entrata del museo, nato e gestito dalle loro giovani ed entusiastiche menti, si legge: ” Un popolo che non ha memoria dei propri artisti, è un popolo che non ha memoria di sé”

Di certo noi ci ricorderemo di questo artista girovago ed eclettico ma soprattutto ci ricorderemo di loro, dell’amore per la terra in cui vivono, del loro impegno, della loro passione e del loro magico paese dove i campanili calzano cappelli da mago.

Dagli Appennini all’ Etna

In questi anni moltissimi amici sono venuti a trovarci, la stragrande maggioranza “volando”. Qualche coraggioso ha sfidato le lunghe distanze che lo separavano dal profondo sud in sella ad una moto e qualche altro ha caricato la propria auto su un traghetto ma mai nessuno ha dato prova di coraggio come Claudio e Laura. Attesi ospiti ormai da anni, credo abbiano subito la pressione dell’imminente cambio di rotta. Decisi, quindi, a non lasciarsi sfuggire l’ ultima occasione di conoscere Cautha hanno snobbato aerei, moto e auto per imbarcarsi in un avventuroso viaggio in…

Ora, da quando queste lunghe tratte sono diventate, per così dire, di pubblico dominio, ho sempre pensato che 18 ore di strada (in andata e altrettante al ritorno) in compagnia di un’umanità sconosciuta fossero, sì abbastanza vicine all’idea di girone dantesco, ma anche, restando in campo letterario, il palcoscenico ideale per la trama di un racconto. Laura non è scrittrice ma architetto e in quanto ad ispirazione è attrezzata nel migliore dei modi. Se, camminando su una spiaggia tra i tronchi abbandonati dalla mareggiata, è riuscita a immaginare oggetti d’arredamento stupendi, (http://keraecodesign.com) magari riuscirà a trovare qualche spunto artistico anche in questo viaggio apparentemente diabolico.

Per noi, a prescindere da tutto, resteranno sempre degli eroi e, anche se il meteo inclemente e il loro soggiorno davvero brevissimo ci hanno impedito di uscire in mare, non possiamo che essere più che lieti e onorati della loro visita.

Benvenuti ragazzi!

Lustri

La mia amica Michela dice che, in psicologia, il lustro è un’unità di misura. Non ho bisogno di approfondire perché, per quanto ci riguarda, la “cinquina d’anni” ha sempre avuto un grande, anche se inconsapevole, peso nella nostra vita. Casualmente le scelte importanti sono sempre ruotate intorno al numero cinque, così come ora che, dopo 5 anni di vita in barca, ci apprestiamo a tornare sulla terra. Già! Siamo arrivati al giro di boa e Cautha da un paio di settimane è in vendita. Stanchi dei piccoli spazi, delle scomodità, nostalgia del rassicurante mattone? Macché! Niente di tutto ciò. Come sempre ci accade il cambiamento non è frutto di una fuga da qualcosa ma desiderio d’altro.

Questi cinque anni sono stati pieni di esperienze fantastiche e privi di rimpianti. Tornassi indietro rifarei esattamente la stessa scelta ma, come dice il consorte, “ non siamo marinai”( ed io senza dubbio meno di lui). Quello che la vita in mare ci poteva dare ce l’ha dato, il molto che resta non fa per noi. Non siamo marinai che anelano l’oceano, né viaggiatori che sognano il giro del mondo. Non siamo vagabondi del mare che amano spostarsi di anno in anno, di porto in porto e, pur sforzandoci in ogni modo, non riusciremmo a non mettere radici. Così per avere le risorse di costruire qualcosa sulla terra dobbiamo abbandonare ciò che ci lega all’acqua.

Resteremo qui, perché al mare non possiamo rinunciare, cominciando una nuova avventura, senza dimenticare nulla di ciò che abbiamo imparato. Grati a Cautha per averci accudito e protetto, per averci portato lontano, per averci fatto divertire, per averci insegnato il rispetto per il mare e la stima per gli uomini che lo solcano. Grati per averci aiutato a scoprire ciò che è essenziale e ciò che non lo è, per gli incontri che ci ha procurato e per la terra che ci ha indotto ad amare. Ora aspettiamo insieme a lei qualcuno con più sale nelle vene che la faccia volare sulle onde ma che le voglia bene almeno quanto noi. E quando sarà il momento le augureremo senza rimpianti ma con immutato e sempiterno affetto: buona fortuna e buon vento! 

Le “Colpe” dei bambini

Il pianoforte è bianco e lucido, elegante e discreto nella sala d’aspetto dell’aeroporto. Non è più una novità. Da qualche tempo l’idea di lasciare uno strumento a disposizione di chi attende il proprio volo è diventata di moda e il cartellone lì accanto sottolinea la bella iniziativa.

L’idea mi piace e spero che qualcuno tra i tanti presenti abbia voglia di condividere la sua passione, perché pare impossibile che tra tutti non ci sia nemmeno un “ pianista”. Così, quando due bambinetti di otto, nove anni si avvicinano mi preparo a godermi con benevolenza qualche semplice brano da amatori alle prime armi.

L’illusione dura poco. I due in totale disaccordo e in netta competizione si gettano sui tasti, pigiandoli a casaccio a piene mani, un dito alla volta o con improbabili e cacofoniche scale. Tempo qualche secondo e il fastidio sonoro è insopportabile. Gli spettatori si agitano sulle seggiole, più di uno sguardo cerca gli adulti a cui appartengono i sacrileghi senza risultato. Un omone grande e grosso con sembianze da vichingo e una cuffia sulle orecchie, evidentemente non sufficiente, lancia occhiate come dardi. I bimbetti vanno e vengono dal pianoforte intervallando momenti di impagabile silenzio ad attimi di devastante rumore.

Approfittando di un attimo d’assenza un distinto signore si avvicina al piano, sembra mosso da urgenza, come fosse costretto. Posa il suo corposo libro lì accanto e comincia a suonare. Note e melodia escono dal bianco strumento. I volti si distendono. Una signora posa il libro che stava leggendo e si gode sorridendo la performance… Troppo breve! Pochi minuti e il pianista se ne va. La speranza sottintesa dell’intera sala d’aspetto è che gli infanti abbiano capito la differenza ma, ahimè, tutto ricomincia come prima.

Mi ritrovo a sperare che l’omone perda la pazienza, della quale non sembra così ricco e agisca con l’autorità che il suo fisico possente gli concede. E invece è un distinto signore di una certa età che prova un’ estrema contromossa. In uno degli attimi di silenzio si alza e cala il coperchio sui tasti. Al mio sguardo di ammirata riconoscenza per quella che penso sia un’ abile mossa risponde con un sussurrato ma non per questo meno valido: “E che c…”

Pochi istanti dopo, ignaro dell’avvenuto, uno dei bimbetti si lancia all’attacco ma si blocca di fronte all’ostacolo inatteso e corre dal padre a chiedere spiegazioni. Ci siamo, mi dico. L’adulto, finalmente consapevole, gli spiegherà il rispetto degli spazi pubblici, la bellezza della musica, la differenza tra un gioco e uno strumento… e invece…Il babbo si avvicina e, gongolando per il ruolo d’eroe che sta ricoprendo, risolleva il coperchio consegnando ai pargoli il balocco rubato.

La signora, che ha smesso di sorridere da un pezzo, si tuffa nel suo libro staccando i contatti dalla realtà, noi e il distinto signore dalla colorita imprecazione ci alziamo e cerchiamo un posto il più lontano possibile. L’omone se ne era già andato…

E mi dispiace di aver sperato in una sua decisa reazione…” I bambini vengono educati da quello che gli adulti sono…” diceva Jung. Me ne ero dimenticata: non è mai colpa loro!

Matrioska

La “Chiave Suprema” è il titolo di un libro che sfiora la leggenda, imputato com’è d’aver portato alla fortuna e al successo uomini d’affari, pensatori e politici di fama mondiale.

Si tratta di una serie di lezioni settimanali e una delle prime recita:

Desidero che prendiate un oggetto e percorriate a ritroso la strada della sua origine per vedere in cosa esso consiste realmente (…) sono in pochi a sapere che le cose che vedono rappresentano solo gli effetti e a comprendere le cause che hanno permesso a tali effetti di essere portati sul piano dell’esistenza … 

Ora, senza approfondire se questo o altri suggerimenti mantengano ciò che promettono, è comunque indubbio che, ad uno sguardo attento e curioso, il nostro mondo non sia altro che una meravigliosa e infinita matrioska. Certo non è comune, mentre si ascolta una chitarra, per esempio, pensare alle mani che l’hanno modellata, al metallo che fornisce le corde, al legno, agli alberi da cui deriva e via via fino alla estreme conseguenze che ci portano a quell’uomo che per primo ha pizzicato le corde tese da un’estremità all’altra di un arco.

Succede, però, che le persone che vivono di passione conoscano ciò che amano fare ben al di sotto della superficie e incontrarle significa percorrere con loro una nuova e, fino a quel momento sconosciuta, strada a ritroso.

In questo modo molti cari amici, nel tempo, hanno trasformato la nostra percezione del vino da una semplice bevanda ad un universo. Tra loro Federico, gestore e proprietario dell’enoteca “Giro di Vite”  e Silvia, approdati dall’Emilia in Sicilia in vacanza enogastronomica. Durante questi giorni abbiamo avuto il privilegio di essere accompagnati dalle loro parole nei micro mondi che partono da un bicchiere, attraversano persone e azioni fino a giungere alla pianta, al frutto, al sole che lo colora e ancora più giù, alle radici che affondano in una particella di terra diversa da ogni altra.

Foto tratta dal sito “Cantina Ferracane”

É uno splendido viaggio e siamo sempre grati di tutte le occasioni che la vita ci offre di imparare e di scoprire perché…

quando il pensiero viene allenato a guardare al di sotto della superficie, tutto assume un aspetto diverso … 

Grazie, quindi, ragazzi e benvenuti nel registro degli ospiti.

A B C

Foto tratta da Internet

La vocina incespica sulle sillabe, le ripete lontane ed estranee, finchè, finalmente, con un unico soffio di fiato riesce a metterle una accanto all’altra e, quasi incredula, pronuncia “albero”. A quel punto lo sguardo si sposta dalla pagina e cerca conferma da chi ascolta, conferma della vittoria, della conquista, del sogno raggiunto, della promessa mantenuta. “So leggere!” dicono quegli occhi e chiunque abbia avuto il privilegio di guardarli sa che contengono tanta meraviglia quanta gioia. 

Insegnare a leggere e a scrivere è un viaggio meraviglioso, la cosa che ricordo con più gratitudine e orgoglio dei miei anni d’insegnamento. È come traghettare qualcuno da una sponda all’altra di un fiume, da un mondo fatto di segni senza senso ad un mondo dove quei segni diventano forme, suoni, oggetti, sentimenti e molto altro: tutto ciò a cui si può pensare. Da quel momento in poi nessuno sarà più lo stesso perché avrà le chiavi di un mondo nuovo.

Ecco, qualcosa del genere succede tutte le volte che si ha la possibilità di insegnare qualcosa di davvero diverso a qualcuno che non lo conosce. A noi accade tutte le volte che facciamo su Cautha un “battesimo” della vela perché chi porta una barca per la prima volta varca la soglia di un mondo sconosciuto. Dovrà dimenticare destra e sinistra, avanti e indietro perché è il vento che comanda e gli consentirà soltanto d’ avvicinarsi o di allontanarsi da lui. Dovrà imparare ad ascoltarlo, ad assecondarlo o a sfidarlo, solo quel tanto che gli sarà permesso. Dovrà accordare il ritmo del suo corpo al lento sussulto delle onde, dovrà abituare gli occhi a distinguere linee e colori della costa e le mani a trattare con dolcezza il timone, aspettando l’effetto che i lievi movimenti faranno sullo scafo, dovrà imparare a fidarsi del suo “equipaggio” e ad essere affidabile e dovrà cazzare e lascare cime guidando le vele nel loro sbattere, gonfiarsi, vibrare portando la barca sdraiata e agguerrita o placida e serena sul mare. E quando tutto sarà finito non sarà più lo stesso. Non sarà diventato un velista, certo, ma avrà le chiavi di un mondo nuovo e noi il privilegio di avergliele offerte. 

Ferie in famiglia

Nel mazzo delle famiglie tradizionali, a volte, le ferie d’agosto sono tutte uno scompigliar di carte: la nonna in montagna, al fresco, i genitori in viaggio e i figlioli, che non ne vogliono sapere, con gli amici al mare, che altrimenti a settembre non c’è nulla di speciale da ricordare.

Per noi, le cui carte sono invece normalmente scompigliate, l’estate è un’ occasione per riunire il mazzo e quest’anno è riuscito particolarmente bene, con la banda bolo-sicula riunita praticamene al completo.

Così, in quelle che sono diventate  due classiche settimane di ferie abbiamo fatto quello che di solito si fa in ferie: una piccola crociera in flottiglia con l’ormeggio in rada, silenzioso e stellato,

un asporto azzardato dal ristorante alle barche col gommoncino carico di pesce, un battesimo sub per la piccola del gruppo che per la prima volta guarda le onde da sotto in su.

Poi, cene in compagnia, trasporti improbabili,

granite a colazione, che quelli del nord poi non le trovano più, serate “mondane” per i più giovani ed escursioni nei dintorni.

Dintorni che, come ormai ho già da tempo capito, continuano a riservare sorprese. Questa volta la nuova “scoperta” riguarda punta Cirica (o Ciriga). Poco distante da Pozzallo, decantata come una delle più belle spiagge della Sicilia è a circa un’ora di strada  da Marina. Ci si accede da un villaggetto di case abbandonate all’ombra di un grande albero, tra agavi e canneti. Da lì, un breve sentiero porta in cima alla scogliera. La vista spazia sul mare aperto ma sotto ai piedi rocce di tufo bianco vegliano su una serie di piccole calette con  l’acqua cristallina.

Scogli frangiflutti le isolano dal mare aperto, grotte scavate nella roccia da attraversare  carponi le uniscono le une alle altre come un labirinto di piscine naturali in cui abbandonarsi. L’acqua è calda e calma, riparata delle onde del mare a cui appartiene.

Gli ombrelloni ed i turisti non ne intaccano la bellezza selvatica e sincera. È un piccolo angolo di  paradiso.

E benché i paradisi in agosto siano meno paradisi che in tutto il resto dell’anno, questo, invece, sfugge alla norma. E non a causa del suo essere ma di un valore aggiunto che non lo riguarda: perché questa volta ne abbiamo varcato la soglia con la migliore compagnia possibile.

Alta stagione

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La percezione del tempo è una cosa squisitamente personale. Ci sono periodi spessi e intensi che restano addosso come indumenti bagnati, pregni a volte di gioia, a volte di dolore e periodi che volano leggeri, scivolosi, sfuggenti  e scorrono rapidi come l’acqua di un fiume. 

Seduta nel pozzetto della barca, davanti al monitor del computer, guardo incredula la data che appare nel mio ultimo post. Non può essere passato così tanto tempo…

La mezzanotte è suonata già da un po’. I grilli cercano disperatamente di contrastare la cacofonia assordante che proviene dai bar del porto, che sono tutte luci, via vai di passanti e musica, se così si può chiamare, sparata sempre più forte in una gara di decibel dove ognuno cerca d’averla vinta. La stagione è decisamente nel suo pieno ma io quasi non me ne sono accorta. Distratta da altro, quando ho alzato gli occhi l’ho trovata già qui. La spiaggia e la scogliera piene di ombrelloni sono già diventate  affollati luoghi da evitare, tutti i ragazzi che cercavano un lavoro stagionale l’hanno trovato e lavano piatti, portano caffè, distribuiscono arancini con il sorriso stampigliato sul volto, sull’ autobus che collega Marina con Ragusa, quando le ore si fanno piccole, si ammassano i ragazzini diretti alle discoteche e mentre il porto si  svuota, le lavanderie lavorano alla grande e le macchine automatiche piegano e “incartano” lenzuoli, asciugamani e tovaglioli spandendo intorno un intenso profumo di bucato. È luglio e  a luglio questo succede. Un luglio caldo e soleggiato per la gioia di chi ne gode e  di chi di questo vive. 

Intanto, da uno dei bar del porto si alza un coro di buon compleanno, mentre la musica si zittisce come per miracolo. Adesso è tutto un cri-cri di grilli e un vociare lontano. Nel pozzetto sono rimasta sola, il consorte è già sceso sotto coperta. Alzo gli occhi nell’angolo destro del monitor…sono le due passate…!  

La percezione del tempo è una cosa squisitamente personale…

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